Venosa: tra rovine, silenzi e bellezza eterna
Ci sono luoghi che non si visitano, si attraversano con rispetto, quasi in punta di piedi. Venosa è uno di questi. Appena arrivato, ho capito che non stavo semplicemente guardando un borgo del Sud, ma camminando in un pezzo vivo di storia, stratificata tra pietra, silenzio e sole.
La mia prima tappa è stata la Chiesa della Santissima Trinità. O meglio: ciò che ne resta, perché è proprio quella sua incompiutezza a renderla potente. Le colonne spezzate, l’abside aperta al cielo, gli archi che non portano da nessuna parte… sembrano più l’inizio di un sogno che la fine di un’opera. Camminare tra quelle rovine è come stare dentro una preghiera sospesa nel tempo. Un luogo sacro anche nella sua assenza.
Accanto, l’area archeologica romana è un altro viaggio: resti di una domus con mosaici, il foro, le terme. Ogni pietra parla latino, e anche se il sole picchia e la polvere si alza, ti sembra di sentire il rumore dei sandali dei centurioni, le voci dei mercanti, la vita che scorreva secoli fa. E poi c’è l’anfiteatro, quasi nascosto, ma immenso nella sua presenza silenziosa.
Ma Venosa non è solo passato: è anche un presente lento e affascinante. Il borgo è un intreccio di vicoli stretti, palazzi nobiliari, balconi fioriti e bambini che giocano in piazza. La gente ti saluta per strada, ti chiede da dove vieni, e se ti fermi troppo a lungo davanti a un portone antico, qualcuno esce e ti racconta la sua storia. Magari ti offre anche un caffè.
E poi, non posso non citare Orazio, il poeta latino che qui nacque più di duemila anni fa. A Venosa, la poesia non è un ricordo, è una presenza. Sta scritta sui muri, nei libri delle librerie locali, nei versi che qualcuno recita per gioco, o per amore.
Venosa è un luogo che non si dimentica. È fatta di pietra e luce, di memoria e vita. È il tipo di posto dove torni anche solo con il pensiero, nei giorni in cui cerchi qualcosa di vero.