Pompei

Pompei, agosto. Bellezza in fiamme

C’erano 42 gradi quel giorno. L’asfalto tremava, le cicale urlavano senza tregua e l’aria aveva l’odore ferroso della terra arsa. Tutto attorno, le colline bruciavano. Fumo all’orizzonte, cielo velato di grigio, e il Vesuvio che sembrava trattenere il respiro. Era agosto 2024, ed io ero a Pompei.

Visitare Pompei con quel caldo, in mezzo agli incendi, è stata un’esperienza straniante. Fisicamente faticosa, certo – ma anche emotivamente fortissima. Le rovine non erano solo rovine: sembravano riemergere da una catastrofe gemella, come se l’antica distruzione del 79 d.C. si stesse riscrivendo sotto i nostri occhi, in diretta, tra polvere, sudore e odore di fumo.

Camminavo tra i decumani, le domus, i templi, e sentivo la città respirare piano, come se anche lei stesse cercando un po’ d’ombra. I colori dei mosaici sembravano più intensi sotto quella luce crudele, quasi fossero tornati vivi. Il Lupanare, le terme, il foro… tutto parlava di una quotidianità lontanissima ma stranamente familiare.

E poi, il colpo allo stomaco: entrare in una casa e trovare un corpo pietrificato nel tempo, una figura rannicchiata sotto una pioggia di lapilli di secoli fa. In quel momento, col calore che ti spinge al limite e l’odore di bruciato nell’aria, la distanza tra “ieri” e “oggi” si è dissolta. Era tutto lì, presente. Fragile, umano, reale.

Pompei è già, di suo, una lezione di impermanenza. Ma vederla in quei giorni, circondata da fiamme, con l’aria rovente e i turisti mezzi storditi dall’afa, è stato come vivere una piccola fine del mondo – lenta, silenziosa, inevitabile.

Eppure, nonostante tutto, Pompei resiste. Resta lì, inchiodata alla terra, sopravvissuta a tutto. Anche a noi.

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